giovedì 29 gennaio 2015

Giacomo Leopardi - La sera de dì di festa - Analisi - Commento

L’idillio “La sera del dì di festa” è stato scritto da Giacomo Leopardi a Recanati, suo paese natio, nella primavera del 1820. Fa parte della raccolta dei primi idilli, caratterizzati da tematiche autobiografiche e personali, in cui la realtà esterna è rappresentata tutta in funzione soggettiva.
La poesia si apre con la descrizione di un notturno lunare di stampo classico, dal quale si può subito identificare una di quelle immagini che, come lo stesso Leopardi aveva teorizzato nello “Zibaldone”, possiedono la forza suggestiva di stimolare l’immaginazione: la luce della Luna. Si rivolge poi a una donna amata che non è identificabile con un personaggio reale, e ne descrive il sonno tranquillo, senza preoccupazione e incurante del dolore che ha scaturito al poeta, che lo induce ad una serie di riflessioni pessimistiche. Prime fra tutte la convinzione che la natura “matrigna”, qui personificata, gli abbia imposto una sofferenza perpetua che neanche la speranza possa placare. Si sviluppano così le prime caratteristiche tipiche della fase del pessimismo storico, in cui il dolore non accomuna tutti gli uomini.
La reazione del poeta a questa condanna è titanica e si manifesta in atteggiamenti di violenta ribellione: “qui per terra mi getto, e grido, e fremo”, che crea un abile contrasto con la quiete e la serenità del paesaggio naturalistico presentato nei primi versi e il sonno tranquillo della donna.
Al verso 24 ritroviamo un’altra immagine che Leopardi, nello “Zibaldone”, presentando la teoria del suono, indicava come ideale per destare un’idea vaga e indefinita: il canto solitario e lontano di un artigiano che ritorna, dopo i divertimenti del giorno di festa alla sua povera casa, che induce al poeta a riflettere sulla fugacità delle cose umane e sul tempo che vanifica “ogni umano accidente” e così come il canto che si allontana a poco a poco, si dissolve nel silenzio, così come l’animazione e la vita del giorno festivo.
Del di festivo, infatti, più nulla rimane, così come intere epoche della storia (in questo caso il poeta fa riferimento agli antichi Romani), pur splendide un tempo per civiltà e valore, non hanno lasciato che tenui memorie, destinate anch’esse a scomparire.
Nella lirica non manca il tema leopardiano della “rimembranza”, infatti negli ultimi versi egli ricorda quando, durante la sua fanciullezza attendeva ansiosamente un giorno festivo ma poi, quando era trascorso, angosciato giaceva nel letto, ascoltando un canto che gli aveva suscitato la stessa sofferenza che prova udendo il canto dell’artigiano.
I temi principali dell’idillio sono dunque: l'infelicità del poeta e il suo senso di esclusione alle gioie della giovinezza e il distruttivo passare del tempo che annienta ogni opera umana. Il collegamento tra i due temi è implicito: i giorni del poeta sono orrendi ma anche questa infelicità è nulla perché destinata a vanificarsi e scomparire nel fluire del tempo.
I versi sono degli endecasillabi sciolti, il linguaggio è colloquiale anche se vi sono parecchie figure retoriche:
al verso 24: una metafora “in così verde etate”, al verso 4 un’apostrofe “O donna mia” e al verso 11 un’anafora “Tu dormi”. 


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