L’idillio “La sera del dì di festa” è stato
scritto da Giacomo Leopardi a Recanati, suo paese natio, nella primavera del
1820. Fa parte della raccolta dei primi idilli, caratterizzati da tematiche
autobiografiche e personali, in cui la realtà esterna è rappresentata tutta in
funzione soggettiva.
La poesia si apre con la descrizione di un
notturno lunare di stampo classico, dal quale si può subito identificare una di
quelle immagini che, come lo stesso Leopardi aveva teorizzato nello
“Zibaldone”, possiedono la forza suggestiva di stimolare l’immaginazione: la
luce della Luna. Si rivolge poi a una donna amata che non è identificabile con
un personaggio reale, e ne descrive il sonno tranquillo, senza preoccupazione e
incurante del dolore che ha scaturito al poeta, che lo induce ad una serie di
riflessioni pessimistiche. Prime fra tutte la convinzione che la natura
“matrigna”, qui personificata, gli abbia imposto una sofferenza perpetua che
neanche la speranza possa placare. Si sviluppano così le prime caratteristiche
tipiche della fase del pessimismo storico, in cui il dolore non accomuna tutti
gli uomini.
La reazione del poeta a questa condanna è
titanica e si manifesta in atteggiamenti di violenta ribellione: “qui per terra
mi getto, e grido, e fremo”, che crea un abile contrasto con la quiete e la
serenità del paesaggio naturalistico presentato nei primi versi e il sonno
tranquillo della donna.
Al verso 24 ritroviamo un’altra immagine che
Leopardi, nello “Zibaldone”, presentando la teoria del suono, indicava come
ideale per destare un’idea vaga e indefinita: il canto solitario e lontano di
un artigiano che ritorna, dopo i divertimenti del giorno di festa alla sua
povera casa, che induce al poeta a riflettere sulla fugacità delle cose umane e
sul tempo che vanifica “ogni umano accidente” e così come il canto che si
allontana a poco a poco, si dissolve nel silenzio, così come l’animazione e la
vita del giorno festivo.
Del di festivo, infatti, più nulla rimane, così come intere
epoche della storia (in questo caso il poeta fa riferimento agli antichi
Romani), pur splendide un tempo per civiltà e valore, non hanno lasciato che
tenui memorie, destinate anch’esse a scomparire.
Nella lirica non manca il tema leopardiano della “rimembranza”,
infatti negli ultimi versi egli ricorda quando, durante la sua fanciullezza
attendeva ansiosamente un giorno festivo ma poi, quando era trascorso, angosciato
giaceva nel letto, ascoltando un canto che gli aveva suscitato la stessa
sofferenza che prova udendo il canto dell’artigiano.
I temi principali dell’idillio sono dunque: l'infelicità del
poeta e il suo senso di esclusione alle gioie della giovinezza e il
distruttivo passare del tempo che annienta ogni opera umana. Il
collegamento tra i due temi è implicito: i giorni del poeta sono orrendi ma
anche questa infelicità è nulla perché destinata a vanificarsi e scomparire nel
fluire del tempo.
I versi sono degli endecasillabi sciolti, il linguaggio è
colloquiale anche se vi sono parecchie figure retoriche:
al verso 24: una metafora “in così verde etate”, al verso
4 un’apostrofe “O donna mia” e al verso 11 un’anafora “Tu dormi”.
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