mercoledì 28 gennaio 2015

Vittorio Alfieri - Vita - Opere - Pensiero

Vittorio Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera, grazie alle quali rendite, poté dedicarsi interamente al suo otium letterario senza essere sottomesso alla volontà di nessuno. Compì i primi studi alla Reale Accademia di Torino, della quale formazione arida e ispirata a modelli culturali antiquati, diede dei giudizi durissimi.
Uscito dall’accademia compì numerosi viaggi in Italia e in Europa, com’era solita fare la nobiltà europea nello spirito cosmopolita e nell’ansia di conoscenza propri dell’età dei lumi. I viaggi di Alfieri, tuttavia,  non rientravano in questo spirito illuministico, egli infatti si spostava spinto da una smania di movimento, un’irrequietezza continua, che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo e gli provocava un senso di scontentezza, noia e vuoto. Questa perenne scontentezza non aveva cause precise, era come se egli seguisse qualcosa di ignoto e inafferrabile o come se col moto incessante volesse stordirsi per non percepire il vuoto che avvertiva dentro di se. Successivamente egli interpreterà questa scontentezza come bisogno di trovare un fine sublime intorno cui ordinare tutta l’esistenza, che egli identificherà con la vocazione poetica. I suoi viaggi, tuttavia gli avevano permesso di conoscere le condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea, l’Europa dell’assolutismo, che nel giovane provoca reazioni negative. Reazioni più positive invece suscitarono in lui  paesi come l’Inghilterra e l’Olanda, in cui vi erano maggiori libertà civili, e  i paesaggi desolati orridi e maestosi come le selve della Scandinavia, in cui egli proietta quasi romanticamente il suo io.
Ritornato a Torino, dopo cinque anni di viaggio, non si dedicò alle attività politiche e militari, ma condusse una vita oziosa chiuso in una solitudine che amplifica la sua inquietudine e scontentezza, accresciuta da una relazione con la marchesa Gabriella Turinetti che gli causò infinite angosce e dolori e da cui egli non riuscì a liberarsi. Trova allora conforto nell’attività letteraria: studiò gli illuministri francesi, che costituiranno la base della sua cultura e fonda con alcuni amici una sorta di  società letteraria, ai quali risalgono i suoi primi tentativi di scrittura (Esquisse du jujgement universel – Journal).
Soltanto nel 1775, però, si colloca la svolta fondamentale destinata a dare un senso alla sua vita: l’anno prima, infatti aveva abbozzato una tragedia, “Antonio e Cleopatra” , dimenticandola subito dopo; ritornatogli in mano per caso, scoprì la somiglianza tra la propria relazione con la Turinetti e quella tra Antonio e Cleopatra e si rese conto di come proiettare i propri sentimenti nella poesia fosse l’unico mezzo per  trovare un superamento dei propri tormenti. La tragedia, portata a termine venne rappresentata e ottenne un grande successo. Trovò allora lo scopo capace di dare un senso alla sua vita vuota e compose numerose altre tragedie, dedicando il resto della sua esistenza alla letteratura.
Data però l’insufficienza dei suo primi studi, gli fu indispensabile munirsi di un adeguato bagaglio culturale: si immerse così nella lettura dei classici latini e italiani e si applicò nello studio della lingua italiana (fino a quel momento parlava e scriveva prevalentemente in francese). Decise inoltre di svincolarsi da ogni legame con il re di Sardegna, rinunciando a tutti i suoi beni in favore della sorella, in cambio di una rendita vitalizia.
Nel 1789, lo scoppiare della Rivoluzione francese risveglia il suo spirito antitirannico e lo induce a dedicare un’ode alla presa della Bastiglia, ma presto gli sviluppi della Rivoluzione suscitarono in lui disgusto per quella che riteneva una falsa libertà che nascondeva una nuova tirannide borghese. Negli ultimi anni della sua vita si stabilì a Firenze, dove morì nel 1803.

I RAPPORTI CON L’ILLUMINISMO
Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono illuministiche. Egli, tuttavia, non ne condivide vari aspetti, ma non riesce a superare quelle posizioni arrivando ad una diversa prospettiva ideologica.
-          Egli rifiuta il culto della scienza: il freddo razionalismo scientifico, secondo lui, soffoca quella passione in cui risiede la vera essenza dell’uomo e spegne l’immaginazione da cui solo può nascere la poesia.  La filosofia dei lumi, inoltre mirava alla regolamentazione razionale della vita passionale ed affidava alla ragione la funzione di guida e direzione degli impulsi profondi. Alfieri si ribella a questo controllo razionale ed esalta la passionalità e il culto della vita intensa.
-          L’illuminismo, sulla base della razionalità scientifica, sottoponeva a critica anche la religione tradizionale, approdando ad un vago deismo o a posizioni atee e materialistiche. Alfieri, pur non avendo una forte fede religiosa, respinge tali posizioni, mosso da uno spirito religioso che si manifesta in una tensione verso l’infinito e un bisogno di assoluto.
-          Anche il progresso economico, come quello scientifico lo lascia freddo e scettico. Egli vede infatti nello sviluppo economico l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente incapace di alt ideali e forti passioni: la borghesia.
-          Al cosmopolitismo contrappone l’isolamento.
-          Al filantropismo contrappone il culto di un umanità eroica, che si innalza rispetto alla massa di uomini comuni.

LE IDEE POLITICHE
Anche alla base delle idee politiche vi sono le iee illuministiche di Montesquieu, Voltaire e Rousseau, ma anche in questo caso Alfieri si stacca dalla cultura dei lumi affermando delle posizioni del tutto personali.
Innanzitutto è l’ambiente in cui nasce e si forma a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo, caratterizzato da un assolutismo che esercita un rigido controllo su tutte le forme di vita associata. Da questo ambiente soffocante il giovane Alfieri fugge vagando per cinque anni nei vari paesi europei, ma ovunque si scontra contro il clima opprimente dell’assolutismo monarchico, ma si troverà in urto anche con ciò che è destinato a sostituirlo: la borghesia. Per questo motivo troviamo in lui uno spaesamento totale e un senso di solitudine, che il giovane concepisce come una condizione di superiorità spirituale.
L’odio contro la tirannide è il punto centrale di tutta la sua riflessione, che non si configura come una la critica di una forma particolare di governo, ma del potere in sé, in quanto ogni forma di potere è oppressiva, per questo motivo Alfieri non contrappone nessuna concreta alternativa politica.
Anche il concetto di libertà che egli esalta contro la tirannide non possiede delle precise connotazioni politiche e non prende corpo in un progetto definito di Stato, ma resta astratto e indeterminato.
Vediamo, quindi, come nel pensiero di Alfieri non si scontrano due concetti politici (tirannide e libertà) ma due  forze che nascono all’interno di Alfieri stesso: da un lato il titanismo (l’affermazione totale dell’io al di la di ogni limite, la tensione ad una grandezza sovraumana) dall’altro la percezione di forze che nell’io stesso si oppongono a questa espansione. Il tiranno, non è solo la trasfigurazione mitica di una condizione storica oppressiva, ma anche la proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso: tormenti e angosce che minano la saldezza della volontà.

LE OPERE POLITICHE
Della tirannide: è un breve trattato in cui Alfieri inizialmente si preoccupa di definire la tirannide, identificandola con ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi e critica soprattutto le tirannidi moderate di quel periodo che, a suo avviso, velano la brutalità del potere e tendono ad addormentare i popoli, preferendo quelle estreme e oppressive poiché provocano l’insurrezione del popolo, portando alla conquista della libertà.
Egli inoltre esamina le basi su cui si appoggia il potere tirannico e le individua nella nobiltà, nella casta militare e in quella sacerdotale.
Successivamente affronta il modo di comportarsi dell’uomo libero sotto la tirannide: egli potrà o ritirarsi in solitudine, o ricorrere al suicidio, oppure potrà uccidere il tiranno, andando incontro alla morte. Si delineano così due figure: il tiranno e il liber uomo, che sebbene siano tanto diverse, hanno un carattere comune: entrambe infatti sono tese all’affermazione della loro individualità al di là di ogni limite; cogliamo per questo motivo in Alfieri una segreta ammirazione anche nei confronti del tiranno. Lo scrittore stesso afferma che abbandonerebbe volentieri la penna per la spada, cioè per l’azione diretta, ma rinuncia a farlo, dati i “tristi tempi” che negano ogni possibilità di azione.
Panegirico di Plinio a Traiano: notiamo l’affievolirsi dell’impeto rivoluzionario e dell’impegno attivo, in quest’opera Alfieri immagina un principe che spontaneamente deponga il potere facendo dono della libertà ai cittadini.
Della virtù sconosciuta: sviluppa il tema del modo di  comportarsi dell’uomo libero, che ora non può far altro che ritirarsi in sdegnosa solitudine, rinuncia all’eroismo e sceglie volontariamente la non azione.
Del principe e delle lettere:  si dedica ad esaminare il rapporto tra lo scrittore e del potere assoluto. Mentre nella “Tirannide” esaltava la superiorità dell’agire, qui proclama la superiorità assoluta dello scrivere, solo nella letteratura infatti, si manifesta la dignità e la libertà dell’individuo, poiché richiede maggiore grandezza a inventare o descrivere una cosa, che nell’eseguirla. Utilizza l’esempio di Omero, che è più grande di Achille, perché questi, pur avendo compiuto azioni sublimi, non sarebbe stato capace di dare fame a se stesso. L’opera rivela quindi l’affievolirsi dello slancio rivoluzionario, infatti, mentre nella tirannide si scagliava contro l’aristocrazia, ora esalta i nobili, la cui missione è farsi promotori di libertà e virtù, e, nelle opere successive criticherà la nuova classe sociale che si afferma proprio in quel periodo: la borghesia.
Il Misogallo: la causa della crisi ideologica di Alfieri e l’affievolirsi degli astratti entusiasmi giovanili è la Rivoluzione francese, nel suo rilevarsi sempre più come una rivoluzione borghese. In un primo tempo, infatti, egli aveva guardato alla rivoluzione con simpatia, come affermazione di libertà, ma poi si chiude in un atteggiamento di avversione verso quei rivoluzionari borghesi, che, a suo avviso,  contaminano con la loro avidità di potere e ricchezze l’ideale di libertà, instaurando una tirannide peggiore di quella monarchica.
In quest’opera egli esprime il suo odio contro la Francia, che in realtà è odio verso la Rivoluzione, egli difende i privilegi nobiliari e respinge ogni turbamento dell’ordine sociale. Afferma inoltre il suo senso patriottico, e auspica che il popolo italiano possa assumere una coscienza nazionale e difendi la propria individualità e la propria libertà (notiamo come inizia a delinearsi l’idea di nazione tipica della visione romantica, in antitesi con il cosmopolitismo illuministico).

LE SATIRE
Anche le satire e le commedie vengono considerate opere politiche:
Grandi: riprende la polemica antiaristocratica, indirizzata però soltanto ad aspetti marginali come la frivolezza e l’ozio, ne ribadisce tuttavia la supremazia e la sua funzione di guida.
La plebe e  La sesquiplebe: violente requisitorie contro la borghesia a cui Alfieri non riconosce alcun diritto
Antireligioneria: il poeta difende la religione contro la critica volt ariana, affermando la necessaria funzione consolatrice.
Filantropineria: condanna gli ideali dell’Illuminismo, tra i quali l’uguaglianza.
Commercio: contro lo spirito mercantile.

E LE COMMEDIE
Nelle commedie si esprime ancora più radicalmente la sua delusione e la crisi degli ideali:
L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto: sono una satira allegorica delle varie forme di governo a cui si contrappone infine l’antidoto: una forma di governo alternativa che per Alfieri doveva essere un governo misto, che tuttavia, esclude la plebe dalla vita politica.
La Finestrina: una satira morale in cui denuncia la matrice autentica dell’operosità umana in tutti i settori; analizzando filosofi, letterati o fondatori di religioni, nota che sono tutti mossi da vanità e interessi personali.
Il divorzio: opera più sarcastica e comica, nella quale critica il cicisbeismo.

LA POESIA TRAGICA
Soltanto nella scrittura tragica, però, Alfieri trova la catarsi alla sua oscura inquietudine e  individua lo scopo della sua vita. Egli sceglie la poesia tragica per diversi motivi:
-          Tradizionalmente la tragedia rappresentava figure umane eroiche ed eccezionali, appariva quindi il genere più adatto ad esprimere il titanismo alfieriano. Nel costruire i suoi eroi, infatti, egli dava sfogo delle sue stesse aspirazione e proiettava se stesso.
-          La tragedia, inoltre, non aveva ancora trovato nella cultura italiana la sua piena realizzazione, mancava infatti un poeta tragico all’altezza dei contemporanei francesi come Corneille e Racine; in questo campo, quindi Alfieri ritrovava l’occasiona adatta per l’affermazione di sé.

Alfieri compose diversi scritti teorici in cui  delineava i principi che lo ispiravano nel lavoro di composizione delle tragedie:
Egli critica la tragedia francese,  ricca di eccessive esitazioni  che rallentano l’azione, il patetismo sentimentale e l’andamento monotono, secondo Alfieri alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere lo slancio passionale, il calore di un contenuto vissuto, che si manifesta nel dinamismo dell’azione e nella tensione incalzante che precipita verso la catastrofe. Egli propone quindi di eliminare ogni elemento superfluo e concentrarsi su un numero limitatissimo di personaggi principali, utilizzare uno stile rapido, conciso ed essenziale. La battute sono in prevalenza brevi e spesso sono presenti parole monosillabiche. Lo stile inoltre, deve distinguersi da quello lirico che tende al canto, la tragedia, infatti, esprime conflitti fra individualità, idee e passioni, deve quindi essere duro aspro e antimusicale, ricco di enjambement, inversioni e pause. Notiamo inoltre come l’ordine delle parole è sconvolto.
Alfieri, tuttavia mira sempre a disciplinare questi contenuti in forme rigorosamente classiche, egli infatti rispetta le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.
Il bisogno di disciplina si manifesta anche nel suo modo stesso di lavorare: egli infatti afferma che l’elaborazione di ogni tragedia si articola in tre momenti fondamentali: ideare, stendere, verseggiare. La creazione è originariamente un processo spontaneo che trae alimento da componenti più irrazionali, ma poi quel contenuto deve disciplinarsi in una forma religiosa.
Alfieri di norma non fece rappresentare le sue tragedie in teatri pubblici, ma solo in rappresentazioni private, questa scelta nasceva da un rifiuto del teatro contemporaneo, degli attori dell’epoca e del pubblico comune, insensibile e mediocre.

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA TRAGICO

Nelle tragedie di Alfieri si proiettano i vari cambiamenti dei suoi stati d’animo, vediamo infatti in una prima fase il sogno di grandezza sovraumana, lo slancio titanico di affermazione dell’io al di là di ogni ostacolo, ma contemporaneamente si profila lo scontro con una realtà ostile che soffoca quello slancio e porta a una concezione pessimistica e scettica dell’uomo.
Filippo: sotto le vesti del sovrano spagnolo Filippo II appare per la prima volta il mito del tiranno che sarà poi delineato nella Tirannide. Questo personaggio, nella sua volontà di imporre il suo dominio incontrastato anche a costo di uccidere il figlio, incarna l’individualismo alfieriano e il suo bisogno di grandezza.
Polinice: Anche nella rivalità dei due fratelli Eteocle e Polinice, nati dall’incesto di Edipo con la propria madre, vediamo la brama di grandezza e l’individualismo esclusivo e sfrenato.
Antigone: tema del rifiuto sdegnoso della realtà.
Agamennone e Oreste: motivo della debolezza umana. Clitennestra, moglie di Agamennone ed Egisto suo amante, uccidono Agamennone, il figlio Oreste è costretto ad uccidere la madre per vendicare il padre. Clitennestra appare smarrita, debole e in balia delle sue passioni, l’individualismo titanico di Alfieri mostra le sue prime crepe.
Virginia: L’ideologia eroica  assume vesti politiche. Il personaggio centrale, Icilio si scontra con il tiranno Appio Claudio per difendere l’amata Virginia da questi insidiata è il primo degli eroi di libertà alfieriani.
Congiura de’ Pazzi: Anche questa una tragedia di libertà in cui però la virtù dell’eroe va incontro alla disfatta, che corrisponde al suicidio disperato di Raimondo che si oppone alla tirannide di Lorenzo il Magnifico.

SAUL
Nel Sul l’individualismo alfieriano e il titanismo entrano definitivamente in crisi. Saul presenta una figura di eroe del tutto nuova, non è più l’eroe forte e fermo, ma un eroe lacerato, perplesso e sconfitto da se stesso. Il vecchio re d’Israele, alla vigilia dello scontro decisivo con i nemici Filistei, sente tutto il peso dell’umani insufficienza e debolezza, che si proietta nell’oscura maledizione divina che egli sente gravare su di sè e prende forma negli incubi e nelle angosce che lo tormentano. La volontà titanica si scontra con il limite invarcabile della volontà di Dio e l’affermazione della propria grandezza si trasforma in una sfida a Dio, che destina l’eroe alla sconfitta.
Come già sappiamo, il senso del divino non è una parte essenziale dello spirito di Alfieri, lo è comunque dell’animo del personaggio. Saul credendo di essersi meritato l’ira di Dio, cade in questo stato di turbamento. Il vero conflitto di Saul, però non è in definitiva uno scontro con la potenza trascendentale di Dio, ma è tutto dentro di lui, e quello che egli chiama Dio non è altro che una funzione del suo animo, scaturita dal terribile senso di colpa provocato dalla smisurata volontà di potenza che lo porta a travolgere e calpestare senza pietà chiunque lo ostacoli, a far soffrire i figli e a scacciare l’amato David. In conseguenza al senso di colpa la tensione titanica va incontro alla sconfitta e  si trasforma in un senso di angoscia e smarrimento.
Il nemico non è più al di fuori dell’eroe, ma al suo interno, ed è un nemico a cui è vano opporsi con atteggiamenti di sfida.
L’interiorizzazione del conflitto si manifesta anche nel rapporto con David. Anche qui li conflitto è tutto dentro Saul, perché il vecchio re non viene in urto col David reale che gli è devoto e fedele, ma con un David immaginario creato dalle sue ossessioni, che in realtà non è altro che Saul stesso: in esso infatti il re proietta l’immagine di sé giovane e forte, per questo motivo, egli, da un lato lo ama, in quanto vede nel giovane se stesso, ma lo odia perché rappresenta ciò che  non è più e mai potrà essere. Lottando contro Dio e contro David, Saul, dunque lotta contro una parte di sé.






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