Vittorio Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio
1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera, grazie alle quali rendite, poté
dedicarsi interamente al suo otium letterario senza essere sottomesso alla
volontà di nessuno. Compì i primi studi alla Reale Accademia di Torino, della
quale formazione arida e ispirata a modelli culturali antiquati, diede dei
giudizi durissimi.
Uscito dall’accademia compì numerosi viaggi in
Italia e in Europa, com’era solita fare la nobiltà europea nello spirito
cosmopolita e nell’ansia di conoscenza propri dell’età dei lumi. I viaggi di
Alfieri, tuttavia, non rientravano in
questo spirito illuministico, egli infatti si spostava spinto da una smania di
movimento, un’irrequietezza continua, che non gli consentiva di fermarsi in
alcun luogo e gli provocava un senso di scontentezza, noia e vuoto. Questa
perenne scontentezza non aveva cause precise, era come se egli seguisse
qualcosa di ignoto e inafferrabile o come se col moto incessante volesse stordirsi
per non percepire il vuoto che avvertiva dentro di se. Successivamente egli
interpreterà questa scontentezza come bisogno di trovare un fine sublime
intorno cui ordinare tutta l’esistenza, che egli identificherà con la vocazione
poetica. I suoi viaggi, tuttavia gli avevano permesso di conoscere le
condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea, l’Europa
dell’assolutismo, che nel giovane provoca reazioni negative. Reazioni più
positive invece suscitarono in lui paesi
come l’Inghilterra e l’Olanda, in cui vi erano maggiori libertà civili, e i paesaggi desolati orridi e maestosi come le
selve della Scandinavia, in cui egli proietta quasi romanticamente il suo io.
Ritornato a Torino, dopo cinque anni di
viaggio, non si dedicò alle attività politiche e militari, ma condusse una vita
oziosa chiuso in una solitudine che amplifica la sua inquietudine e
scontentezza, accresciuta da una relazione con la marchesa Gabriella Turinetti
che gli causò infinite angosce e dolori e da cui egli non riuscì a liberarsi.
Trova allora conforto nell’attività letteraria: studiò gli illuministri
francesi, che costituiranno la base della sua cultura e fonda con alcuni amici
una sorta di società letteraria, ai
quali risalgono i suoi primi tentativi di scrittura (Esquisse du jujgement
universel – Journal).
Soltanto nel 1775, però, si colloca la svolta
fondamentale destinata a dare un senso alla sua vita: l’anno prima, infatti
aveva abbozzato una tragedia, “Antonio e Cleopatra” , dimenticandola subito
dopo; ritornatogli in mano per caso, scoprì la somiglianza tra la propria
relazione con la Turinetti e quella tra Antonio e Cleopatra e si rese conto di
come proiettare i propri sentimenti nella poesia fosse l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti.
La tragedia, portata a termine venne rappresentata e ottenne un grande
successo. Trovò allora lo scopo capace di dare un senso alla sua vita vuota e
compose numerose altre tragedie, dedicando il resto della sua esistenza alla
letteratura.
Data però l’insufficienza dei suo primi studi,
gli fu indispensabile munirsi di un adeguato bagaglio culturale: si immerse
così nella lettura dei classici latini e italiani e si applicò nello studio
della lingua italiana (fino a quel momento parlava e scriveva prevalentemente in
francese). Decise inoltre di svincolarsi da ogni legame con il re di Sardegna,
rinunciando a tutti i suoi beni in favore della sorella, in cambio di una
rendita vitalizia.
Nel 1789, lo scoppiare della Rivoluzione
francese risveglia il suo spirito antitirannico e lo induce a dedicare un’ode
alla presa della Bastiglia, ma presto gli sviluppi della Rivoluzione
suscitarono in lui disgusto per quella che riteneva una falsa libertà che
nascondeva una nuova tirannide borghese. Negli ultimi anni della sua vita si stabilì
a Firenze, dove morì nel 1803.
I
RAPPORTI CON L’ILLUMINISMO
Le basi della formazione intellettuale di
Alfieri sono illuministiche. Egli, tuttavia, non ne condivide vari aspetti, ma
non riesce a superare quelle posizioni arrivando ad una diversa prospettiva
ideologica.
-
Egli rifiuta il culto della
scienza: il freddo razionalismo scientifico, secondo lui, soffoca quella
passione in cui risiede la vera essenza dell’uomo e spegne l’immaginazione da
cui solo può nascere la poesia. La
filosofia dei lumi, inoltre mirava alla regolamentazione razionale della vita
passionale ed affidava alla ragione la funzione di guida e direzione degli
impulsi profondi. Alfieri si ribella a questo controllo razionale ed esalta la
passionalità e il culto della vita intensa.
-
L’illuminismo, sulla base della
razionalità scientifica, sottoponeva a critica anche la religione tradizionale,
approdando ad un vago deismo o a posizioni atee e materialistiche. Alfieri, pur
non avendo una forte fede religiosa, respinge tali posizioni, mosso da uno
spirito religioso che si manifesta in una tensione verso l’infinito e un
bisogno di assoluto.
-
Anche il progresso economico, come
quello scientifico lo lascia freddo e scettico. Egli vede infatti nello
sviluppo economico l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente incapace
di alt ideali e forti passioni: la borghesia.
-
Al cosmopolitismo contrappone
l’isolamento.
-
Al filantropismo contrappone il
culto di un umanità eroica, che si innalza rispetto alla massa di uomini
comuni.
LE IDEE
POLITICHE
Anche alla base delle idee politiche vi sono
le iee illuministiche di Montesquieu, Voltaire e Rousseau, ma anche in questo
caso Alfieri si stacca dalla cultura dei lumi affermando delle posizioni del
tutto personali.
Innanzitutto è l’ambiente in cui nasce e si
forma a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo, caratterizzato
da un assolutismo che esercita un rigido controllo su tutte le forme di vita
associata. Da questo ambiente soffocante il giovane Alfieri fugge vagando per
cinque anni nei vari paesi europei, ma ovunque si scontra contro il clima
opprimente dell’assolutismo monarchico, ma si troverà in urto anche con ciò che
è destinato a sostituirlo: la borghesia. Per questo motivo troviamo in lui uno
spaesamento totale e un senso di solitudine, che il giovane concepisce come una
condizione di superiorità spirituale.
L’odio contro la tirannide è il punto centrale
di tutta la sua riflessione, che non si configura come una la critica di una
forma particolare di governo, ma del potere in sé, in quanto ogni forma di
potere è oppressiva, per questo motivo Alfieri non contrappone nessuna concreta
alternativa politica.
Anche il concetto di libertà che egli esalta
contro la tirannide non possiede delle precise connotazioni politiche e non
prende corpo in un progetto definito di Stato, ma resta astratto e
indeterminato.
Vediamo, quindi, come nel pensiero di Alfieri
non si scontrano due concetti politici (tirannide e libertà) ma due forze che nascono all’interno di Alfieri
stesso: da un lato il titanismo (l’affermazione totale dell’io al di la di ogni
limite, la tensione ad una grandezza sovraumana) dall’altro la percezione di
forze che nell’io stesso si oppongono a questa espansione. Il tiranno, non è
solo la trasfigurazione mitica di una condizione storica oppressiva, ma anche
la proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso: tormenti e angosce
che minano la saldezza della volontà.
LE
OPERE POLITICHE
Della
tirannide: è un breve trattato in cui Alfieri
inizialmente si preoccupa di definire la tirannide, identificandola con ogni
tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi e critica
soprattutto le tirannidi moderate di quel periodo che, a suo avviso, velano la
brutalità del potere e tendono ad addormentare i popoli, preferendo quelle
estreme e oppressive poiché provocano l’insurrezione del popolo, portando alla
conquista della libertà.
Egli inoltre esamina le basi su cui si
appoggia il potere tirannico e le individua nella nobiltà, nella casta militare
e in quella sacerdotale.
Successivamente affronta il modo di
comportarsi dell’uomo libero sotto la tirannide: egli potrà o ritirarsi in
solitudine, o ricorrere al suicidio, oppure potrà uccidere il tiranno, andando
incontro alla morte. Si delineano così due figure: il tiranno e il liber uomo,
che sebbene siano tanto diverse, hanno un carattere comune: entrambe infatti
sono tese all’affermazione della loro individualità al di là di ogni limite;
cogliamo per questo motivo in Alfieri una segreta ammirazione anche nei
confronti del tiranno. Lo scrittore stesso afferma che abbandonerebbe
volentieri la penna per la spada, cioè per l’azione diretta, ma rinuncia a
farlo, dati i “tristi tempi” che negano ogni possibilità di azione.
Panegirico
di Plinio a Traiano: notiamo l’affievolirsi
dell’impeto rivoluzionario e dell’impegno attivo, in quest’opera Alfieri
immagina un principe che spontaneamente deponga il potere facendo dono della
libertà ai cittadini.
Della
virtù sconosciuta: sviluppa il tema del modo
di comportarsi dell’uomo libero, che ora
non può far altro che ritirarsi in sdegnosa solitudine, rinuncia all’eroismo e
sceglie volontariamente la non azione.
Del
principe e delle lettere: si dedica ad esaminare il rapporto tra lo
scrittore e del potere assoluto. Mentre nella “Tirannide” esaltava la
superiorità dell’agire, qui proclama la superiorità assoluta dello scrivere,
solo nella letteratura infatti, si manifesta la dignità e la libertà dell’individuo,
poiché richiede maggiore grandezza a inventare o descrivere una cosa, che
nell’eseguirla. Utilizza l’esempio di Omero, che è più grande di Achille,
perché questi, pur avendo compiuto azioni sublimi, non sarebbe stato capace di
dare fame a se stesso. L’opera rivela quindi l’affievolirsi dello slancio
rivoluzionario, infatti, mentre nella tirannide si scagliava contro
l’aristocrazia, ora esalta i nobili, la cui missione è farsi promotori di
libertà e virtù, e, nelle opere successive criticherà la nuova classe sociale
che si afferma proprio in quel periodo: la borghesia.
Il
Misogallo: la causa della crisi ideologica di
Alfieri e l’affievolirsi degli astratti entusiasmi giovanili è la Rivoluzione
francese, nel suo rilevarsi sempre più come una rivoluzione borghese. In un
primo tempo, infatti, egli aveva guardato alla rivoluzione con simpatia, come
affermazione di libertà, ma poi si chiude in un atteggiamento di avversione
verso quei rivoluzionari borghesi, che, a suo avviso, contaminano con la loro avidità di potere e
ricchezze l’ideale di libertà, instaurando una tirannide peggiore di quella
monarchica.
In quest’opera egli esprime il suo odio contro
la Francia, che in realtà è odio verso la Rivoluzione, egli difende i privilegi
nobiliari e respinge ogni turbamento dell’ordine sociale. Afferma inoltre il
suo senso patriottico, e auspica che il popolo italiano possa assumere una
coscienza nazionale e difendi la propria individualità e la propria libertà
(notiamo come inizia a delinearsi l’idea di nazione tipica della visione
romantica, in antitesi con il cosmopolitismo illuministico).
LE
SATIRE
Anche le satire e le commedie vengono
considerate opere politiche:
Grandi: riprende la polemica antiaristocratica, indirizzata però soltanto ad
aspetti marginali come la frivolezza e l’ozio, ne ribadisce tuttavia la
supremazia e la sua funzione di guida.
La
plebe e La sesquiplebe: violente requisitorie contro la borghesia a cui Alfieri non riconosce
alcun diritto
Antireligioneria: il poeta difende la religione contro la critica volt ariana,
affermando la necessaria funzione consolatrice.
Filantropineria: condanna gli ideali dell’Illuminismo, tra i quali l’uguaglianza.
Commercio: contro lo spirito mercantile.
E LE
COMMEDIE
Nelle commedie si esprime ancora più
radicalmente la sua delusione e la crisi degli ideali:
L’uno,
I pochi, I troppi, L’antidoto: sono una satira
allegorica delle varie forme di governo a cui si contrappone infine l’antidoto:
una forma di governo alternativa che per Alfieri doveva essere un governo
misto, che tuttavia, esclude la plebe dalla vita politica.
La
Finestrina: una satira morale in cui denuncia la
matrice autentica dell’operosità umana in tutti i settori; analizzando
filosofi, letterati o fondatori di religioni, nota che sono tutti mossi da
vanità e interessi personali.
Il
divorzio: opera più sarcastica e comica, nella
quale critica il cicisbeismo.
LA
POESIA TRAGICA
Soltanto nella scrittura tragica, però,
Alfieri trova la catarsi alla sua oscura inquietudine e individua lo scopo della sua vita. Egli
sceglie la poesia tragica per diversi motivi:
-
Tradizionalmente la tragedia
rappresentava figure umane eroiche ed eccezionali, appariva quindi il genere
più adatto ad esprimere il titanismo alfieriano. Nel costruire i suoi eroi,
infatti, egli dava sfogo delle sue stesse aspirazione e proiettava se stesso.
-
La tragedia, inoltre, non aveva
ancora trovato nella cultura italiana la sua piena realizzazione, mancava
infatti un poeta tragico all’altezza dei contemporanei francesi come Corneille
e Racine; in questo campo, quindi Alfieri ritrovava l’occasiona adatta per
l’affermazione di sé.
Alfieri compose diversi scritti teorici in cui delineava i principi che lo ispiravano nel
lavoro di composizione delle tragedie:
Egli critica la tragedia francese,
ricca di eccessive esitazioni che
rallentano l’azione, il patetismo sentimentale e l’andamento monotono, secondo
Alfieri alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere lo slancio
passionale, il calore di un contenuto vissuto, che si manifesta nel dinamismo
dell’azione e nella tensione incalzante che precipita verso la catastrofe. Egli
propone quindi di eliminare ogni elemento superfluo e concentrarsi su un numero
limitatissimo di personaggi principali, utilizzare uno stile rapido, conciso ed
essenziale. La battute sono in prevalenza brevi e spesso sono presenti parole
monosillabiche. Lo stile inoltre, deve distinguersi da quello lirico che tende
al canto, la tragedia, infatti, esprime conflitti fra individualità, idee e
passioni, deve quindi essere duro aspro e antimusicale, ricco di enjambement,
inversioni e pause. Notiamo inoltre come l’ordine delle parole è sconvolto.
Alfieri, tuttavia mira sempre a disciplinare questi contenuti in forme
rigorosamente classiche, egli infatti rispetta le tre unità aristoteliche di
tempo, luogo e azione.
Il bisogno di disciplina si manifesta anche nel suo modo stesso di
lavorare: egli infatti afferma che l’elaborazione di ogni tragedia si articola
in tre momenti fondamentali: ideare, stendere, verseggiare. La creazione è
originariamente un processo spontaneo che trae alimento da componenti più
irrazionali, ma poi quel contenuto deve disciplinarsi in una forma religiosa.
Alfieri di norma non fece rappresentare le sue tragedie in teatri
pubblici, ma solo in rappresentazioni private, questa scelta nasceva da un
rifiuto del teatro contemporaneo, degli attori dell’epoca e del pubblico
comune, insensibile e mediocre.
L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA
TRAGICO
Nelle tragedie di Alfieri si proiettano i vari cambiamenti dei suoi
stati d’animo, vediamo infatti in una prima fase il sogno di grandezza
sovraumana, lo slancio titanico di affermazione dell’io al di là di ogni
ostacolo, ma contemporaneamente si profila lo scontro con una realtà ostile che
soffoca quello slancio e porta a una concezione pessimistica e scettica dell’uomo.
Filippo: sotto le vesti del sovrano spagnolo Filippo II appare per la prima
volta il mito del tiranno che sarà poi delineato nella Tirannide. Questo
personaggio, nella sua volontà di imporre il suo dominio incontrastato anche a
costo di uccidere il figlio, incarna l’individualismo alfieriano e il suo
bisogno di grandezza.
Polinice: Anche nella rivalità dei due fratelli Eteocle e Polinice, nati
dall’incesto di Edipo con la propria madre, vediamo la brama di grandezza e
l’individualismo esclusivo e sfrenato.
Antigone: tema del rifiuto sdegnoso della realtà.
Agamennone e Oreste: motivo della debolezza umana. Clitennestra, moglie di Agamennone ed
Egisto suo amante, uccidono Agamennone, il figlio Oreste è costretto ad
uccidere la madre per vendicare il padre. Clitennestra appare smarrita, debole
e in balia delle sue passioni, l’individualismo titanico di Alfieri mostra le
sue prime crepe.
Virginia: L’ideologia eroica assume vesti
politiche. Il personaggio centrale, Icilio si scontra con il tiranno Appio Claudio
per difendere l’amata Virginia da questi insidiata è il primo degli eroi di
libertà alfieriani.
Congiura de’ Pazzi: Anche questa una tragedia di libertà in cui però la
virtù dell’eroe va incontro alla disfatta, che corrisponde al suicidio
disperato di Raimondo che si oppone alla tirannide di Lorenzo il Magnifico.
SAUL
Nel Sul l’individualismo alfieriano e il
titanismo entrano definitivamente in crisi. Saul presenta una figura di eroe
del tutto nuova, non è più l’eroe forte e fermo, ma un eroe lacerato, perplesso
e sconfitto da se stesso. Il vecchio re d’Israele, alla vigilia dello scontro
decisivo con i nemici Filistei, sente tutto il peso dell’umani insufficienza e
debolezza, che si proietta nell’oscura maledizione divina che egli sente
gravare su di sè e prende forma negli incubi e nelle angosce che lo tormentano.
La volontà titanica si scontra con il limite invarcabile della volontà di Dio e
l’affermazione della propria grandezza si trasforma in una sfida a Dio, che
destina l’eroe alla sconfitta.
Come già sappiamo, il senso del divino non è
una parte essenziale dello spirito di Alfieri, lo è comunque dell’animo del
personaggio. Saul credendo di essersi meritato l’ira di Dio, cade in questo
stato di turbamento. Il vero conflitto di Saul, però non è in definitiva uno
scontro con la potenza trascendentale di Dio, ma è tutto dentro di lui, e
quello che egli chiama Dio non è altro che una funzione del suo animo,
scaturita dal terribile senso di colpa provocato dalla smisurata volontà di potenza
che lo porta a travolgere e calpestare senza pietà chiunque lo ostacoli, a far
soffrire i figli e a scacciare l’amato David. In conseguenza al senso di colpa
la tensione titanica va incontro alla sconfitta e si trasforma in un senso di angoscia e smarrimento.
Il nemico non è più al di fuori dell’eroe, ma
al suo interno, ed è un nemico a cui è vano opporsi con atteggiamenti di sfida.
L’interiorizzazione del conflitto si manifesta
anche nel rapporto con David. Anche qui li conflitto è tutto dentro Saul, perché
il vecchio re non viene in urto col David reale che gli è devoto e fedele, ma
con un David immaginario creato dalle sue ossessioni, che in realtà non è altro
che Saul stesso: in esso infatti il re proietta l’immagine di sé giovane e
forte, per questo motivo, egli, da un lato lo ama, in quanto vede nel giovane
se stesso, ma lo odia perché rappresenta ciò che non è più e mai potrà essere. Lottando contro
Dio e contro David, Saul, dunque lotta contro una parte di sé.
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